La complessità dello sviluppo prodotto, basata sull’integrazione multifisica e sul dominio di conoscenze diversificate, obbliga gli imprenditori a creare una cultura collaborativa, all’interno e all’esterno della propria organizzazione. Non ci servono “Jack of all trades, master of none”, ovvero persone che sanno di tutto un po’, ma persone con competenze specifiche avanzate che abbiano apertura mentale e predisposizione al dialogo in quanto l’innovazione può nascere soprattutto dall’interazione tra specializzazioni uniche ed eterogenee. Intervista ad Alfonso Fuggetta, amministratore delegato e direttore scientifico di Cefriel, eccellenza italiana per l’innovazione.
L’industria italiana vive una situazione schizofrenica. Siamo il paese dei chiaro-scuri dove accanto al bianco si trova il nero e cento sfumature di grigio. Da una parte esistono aziende storicamente refrattarie al cambiamento, dall’altra vi sono realtà che hanno costantemente innovato e che sono in grado di competere a livello mondiale. C’è chi fa innovazione statica o difensiva, insomma quello che serve per evitare di essere messi fuori mercato; chi invece fa innovazione per acquisire un valore aggiunto e un reale differenziale competitivo. Infine, ci sono quelli, pochi, che agiscono con l’obiettivo di fare “disruption” per introdurre iniziative di business radicalmente nuove. Di fatto, da qualsiasi prospettiva la si guardi, innovare è obbligatorio. Chi non lo fa rischia di perdere rilevanza. Su questa tendenza si sono sintonizzate molte imprese, in particolare quelle che hanno una presenza internazionale ovvero quelle più esposte alla concorrenza, consapevoli della necessità di essere allineati alla trasformazione dei mercati. E’ da queste prime considerazioni che inizia la nostra conversazione con Alfonso Fuggetta, amministratore delegato e direttore scientifico di Cefriel, dove si occupa di orientare le strategie del centro nei progetti ricerca e innovazione, e di stimolare il raccordo tra mondo accademico, istituzioni e imprese. Dalle riflessioni contenute nell’intervista emerge con forza la necessità da parte delle aziende di incentivare una cultura multidisciplinare fondata su team collaborativi in grado di mettere a fattor comune le singole individualità. Per dirla in linguaggio anglosassone, perché la trasformazione digitale abbia successo non servono “Jack of all trades, master of none”, ovvero persone che sanno di tutto un po’, ma persone con competenze specifiche avanzate che abbiano apertura mentale e predisposizione al dialogo in quanto l’innovazione può nascere soprattutto dall’interazione tra specializzazioni uniche e diversificate. Un approccio collaborativo che deve essere anche alla base di nuovi ecosistemi digitali dove imprese appartenenti a filiere e distretti industriali possono sviluppare interazioni organiche orientate a valorizzare lo scambio dati come fonte di competitività.
Alle aziende che affrontano il percorso della trasformazione digitale non servono “Jack of all trades, master of none”, ovvero persone che sanno di tutto un po’, ma persone con competenze specifiche avanzate che abbiano apertura mentale e predisposizione al dialogo in quanto l’innovazione può nascere soprattutto dall’interazione tra specializzazioni uniche e diversificate.
In uno scenario di mercato in forte trasformazione come stanno cambiando le aziende italiane?
In linea generale riscontriamo che si tende a fare più innovazione di processo che di prodotto. Si cambia di più dal punto di vista delle modalità operative, nel modo in cui si sviluppa, consegna e gestisce un prodotto/servizio. E’ un peccato, considerato quanto oggi si può realizzare in virtù di una massiva disponibilità di dati. Immaginiamo infatti le potenzialità che possono derivare dalla commercializzazione di prodotti connessi. Di fronte a questo scenario le aziende possono continuare a operare in modalità tradizionale – vendere una macchina per poi provvedere a sostituire i pezzi quando necessario – oppure intraprendere un nuovo approccio “as a service” che integri l’analisi dei dati come base per la creazione di un valore aggiunto, che può essere la manutenzione predittiva, l’efficientamento energetico, l’ottimizzazione del time to market, il miglioramento della qualità prodotto, insomma tutte ipotesi di sviluppo che possano trasferire valore al mio interlocutore. Certo, non esiste una risposta univoca: dipende dal prodotto e dal contesto. Ogni azienda deve però iniziare a riflettere ed esser consapevole di quelli che sono i propri punti di forza perché è da questo ragionamento che può essere individuato in quale direzione possa essere ricercato il nuovo modello di business.
Nel nuovo scenario digitale qual è il rapporto tra tecnologia e innovazione?
Al di là di eccezioni e pura casualità, credo ci sia una sempre più stretta correlazione tra tecnologia e innovazione. Certo, in senso lato, si può fare innovazione anche senza tecnologia. Tuttavia, generalizzare è fuorviante. Vi sono tecnologie abilitanti ed ecosistemi, si pensi al 5G, che creano di per sé stesse innovazione, altre invece che possiamo considerare accessorie o strumentali. Quello che voglio dire è che la tecnologia è condizione necessaria ma non sufficiente. Secondo alcuni basta mettere dentro tecnologia e si fa innovazione. Non è vero. La sola tecnologia senza innovazione di processo è del tutto sterile. In definitiva, il digitale è il denominatore comune a ogni progetto di trasformazione aziendale ma perché possa produrre risultati tangibili deve saper essere interpretato e gestito. E’ un’affermazione che vale per tutti i settori di industry.
Cosa significa introdurre in azienda il digitale?
Declinato nel mondo industriale il digitale diventa il filtro attraverso il quale interagire per riuscire ad avere una piena conoscenza di ciò che accade in un determinato sistema fisico. Questa capacità cambia le regole del gioco. Non basta tuttavia avere la capacità tecnica di analizzare i dati. Occorre coniugare il tutto con una visione moderna del business in cui si opera. E’ questo che può dare significato al tutto e interpretare correttamente la grande quantità di dati e informazioni disponibili. Per avere successo, skill e know-how di carattere tecnico e tecnologico non sono condizioni di per sé sufficienti. Serve, sempre e comunque, l’intuito dell’imprenditore e una conoscenza del dominio di mercato di riferimento ovvero competenze e modalità operative in grado di valorizzare a tutto tondo l’ecosistema d’impresa, in tutte le sue sfaccettature.
Il digitale è il denominatore comune a ogni progetto di trasformazione aziendale ma perché possa produrre risultati tangibili deve saper essere interpretato e gestito. E’ un’affermazione che vale per tutti i settori di industry.
In questo nuovo contesto si tende sempre più ad affermare che le persone devono essere formate secondo una logica multidisciplinare. E’ d’accordo?
In linea generale la multidisciplinarietà tende ad affermarsi come critica alla specializzazione o quanto meno riflette una esigenza di percorso formativo che implica il superamento di un sapere ancorato alla specificità di una singola disciplina. Ma è una lettura che non mi trova d’accordo. Ritengo infatti che la multidisciplinarietà sia oggi fondamentale ma non debba essere prerogativa del singolo quanto piuttosto espressione di una condivisione di competenze. Come si usa dire in linguaggio anglosassone, perseguire obiettivi di efficienza puntando sulla multidisciplinarietà dei singoli significherebbe circondarsi di “Jack of all trades, master of none”, ovvero persone che sanno di tutto un po’. La complessità dei problemi richiede invece competenze specifiche e approfondite che vanno peraltro costantemente aggiornate. Le tecnologie non sono infatti una commodity, sono complicate e richiedono conoscenze che tendono a usurarsi nel tempo.
E quindi?
Semplice, per affrontare la sfida del digitale serve sì una conoscenza multidisciplinare ma questa deve realizzarsi a livello di team. Ecco la vera sfida che emerge: essere capaci di creare ambienti collaborativi. In un gruppo devo riuscire ad avere persone con la più alta specializzazione, apertura mentale e disponibilità al confronto. Una multidisciplinarietà, dunque, che nasce delle singole individualità. Capacità di dialogo e di interazione, predisposizione al cambiamento diventano le doti che, associate a una forte specializzazione, permettono alle imprese di acquisire un nuovo valore. Servono team di professionisti maturi, capaci di aggiornarsi continuamente, disponibili a mettersi in gioco. La multidisciplinarietà nasce dall’interazione tra specializzazioni.
Capacità di dialogo e di interazione, predisposizione al cambiamento diventano le doti che, associate a una forte specializzazione, permettono alle imprese di acquisire un nuovo valore. Servono team di professionisti maturi, capaci di aggiornarsi continuamente e disponibili a mettersi in gioco
Un esempio?
Se devo fare un prodotto connesso devo poter contare su un insieme di competenze eterogenee in quanto devono essere risolte problematiche complesse che non possono essere collassate su un’unica persona altrimenti si corre il rischio di avere scarsa o nulla incidenza in termini di innovazione. Pensiamo all’usabilità dei prodotti. Ci vuole un bravo industrial designer, ma non si può pensare che questa stessa persona abbia quelle conoscenze avanzate – di elettronica e di sensoristica – che necessita un progetto di questo tipo. Non solo, come insegna lo sport di squadra, avere in formazione dei fenomeni non basta. E’ il team nel suo complesso che deve esprimere il risultato. E’ solo in questo modo che si possono impostare processi di sviluppo in grado cogliere tutti gli aspetti funzionali e operativi, prestazionali e tecnici per mettere a punto prodotti facilmente utilizzabili in grado di rendere disponibili informazioni utili e coerenti con obiettivi di business.
Chi è che all’interno della propria azienda può incentivare la formazione di gruppi in grado di esprimere capacità multidisciplinari?
Il compito spetta a manager e dirigenti, a quelle figure che hanno la responsabilità di guidare la trasformazione e il funzionamento dell’impresa. Sono le stesse persone che devono aiutare lo sviluppo di una cultura di open innovation, un termine che – ahimè – viene spesso usato in maniera distorta. Vengono spesso citate iniziative come quella degli hackathon, strumenti usati per la ricerca di talenti, per la collaborazione con start-up o il lancio di nuovi servizi e prodotti. Sono iniziative sicuramente utili ma del tutto marginali. Se è vero che nessuna azienda deve illudersi di sapere fare tutto al proprio interno, si devono mettere in atto best practice di open innovation che possano diventare parte integrante del fare impresa. Nel nostro paese, il più delle volte, si tende invece a legarsi a iniziative estemporanee o peggio ad avere un atteggiamento fideistico nei confronti di fornitori o interlocutori classici del passato. Open innovation significa saper andare a cercare le competenze e la qualità che servono in maniera ragionata senza fermarsi alla superficialità delle mode né alle convenzioni del passato. Deve esistere una domanda matura e un’offerta di innovazione altrettanto matura che non sia legata agli slogan.
Se è vero che nessuna azienda deve illudersi di sapere fare tutto al proprio interno, si devono mettere in atto best practice di open innovation che possano diventare parte integrante del fare impresa.
Chi deve guidare l’innovazione in azienda?
Uso sempre dire che il pesce puzza dalla testa. Ne consegue che è il vertice aziendale in prima persona che deve avere consapevolezza di come è cambiato il mercato e di come evolvere. Solo le aziende che hanno una direzione e una sensibilità di una visione sono capaci di evolvere; quelle che invece rimangono ancorate ai modelli del passato aspettando che le cose cambino in maniera automatica non vanno da nessuna parte. Il ruolo in assoluto più importante è quello dell’amministratore delegato. E’ lui ad imprimere la visione al resto dell’azienda, stabilire quali debbano interpretare i responsabili delle varie line of business. Se il Cio continua per esempio a essere visto come quello che deve risolvere i problemi della sicurezza e ridurre i costi ricadiamo nel passato; è importante invece che sia a tutti gli effetti un membro del team aziendale e che si occupi di definire e sviluppare il futuro dell’impresa. Altrettanto deve avvenire per il marketing, che non può occuparsi di sola pubblicità ma acquisire una funzione chiave nella re-intepretazione del business alla luce delle evoluzioni e trasformazioni del mercato e delle tecnologie.
Solo le aziende che hanno una direzione e una sensibilità di una visione sono capaci di evolvere; quelle che invece rimangono ancorate ai modelli del passato aspettando che le cose cambino in maniera automatica non vanno da nessuna parte
Come riuscire a sviluppare percorsi formativi coerenti con la domanda del mercato?
Sull’aspetto formativo è importante lavorare a tutti i livelli. Sicuramente è importante consolidare la formazione degli Its, uno strumento che andrebbe fortemente potenziato. Basti vedere quello che succede in Germania dove gli Its sono in grado di creare una massa critica di tecnici specializzati che incide profondamente nel funzionamento delle imprese. Dovremmo definire una strategia educativa dell’istruzione italiana e spingere perché si sviluppi un’istruzione omogenea che alzi il livello di preparazione medio delle nostre persone. Mancano data scientist, mancano persone di alto livello nell’Ict e mancano al tempo stesso quelle competenze indispensabili – di medio e basso livello – che dovrebbero essere create dagli Its. Non ci si deve focalizzare solo su una delle parti: la formazione deve essere vista come un unicum, orientata quindi a creare competenze diversificate per tutti i gradienti di posizioni lavorative che vengono oggi richieste. Va da sé che questo atteggiamento vada poi bilanciato. Quanto investire nello sviluppo di poli universitari, quanto negli Its? Beh, dipende da un’analisi del quadro generale della domanda e del potenziale di sviluppo.
Mancano data scientist, mancano persone di alto livello nell’Ict e mancano al tempo stesso quelle competenze indispensabili – di medio e basso livello – che dovrebbero essere create dagli Its. La formazione deve essere vista come un unicum, orientata quindi a creare competenze diversificate per tutti i gradienti di posizioni lavorative che vengono oggi richieste
Su quali attività è coinvolto in prima persona Cefriel?
Il nostro impegno è su tre linee principali di lavoro. La prima riguarda il supporto alle imprese per la valorizzazione del dato ovvero “build value from data”, come rendere un oggetto intelligente e quindi competenze in termini Iot, cloud, analytics, machine learning. Attività che non devono essere meccanicistiche ma che devono essere applicate in funzione di un’analisi del dominio di business; e legate a tutto il ciclo di vita del prodotto: dall’industrial design al concepimento dell’esperienza d’uso a tutto il processo che riguarda raccolta, consolidamento, valorizzazione e fruizione dell’informazione. La seconda è legata allo sviluppo degli ecosistemi digitali ovvero a come creare nuove relazioni di business tra più imprese; fare in modo che le imprese possano interagire tra di loro in quelli che una volta si chiamavano distretti industriali o filiere ma che oggi ha senso indirizzare come ecosistemi digitali e cioè interazioni organiche integrate tra aziende che permettono di valorizzare lo scambio dati come fonte di competitività. Tutti questi tipi di intervento devono però avere come obiettivo un’integrazione di risorse e asset. Se si procede in questa direzione solo per diminuire qualche costo non si va lontano. Terzo e ultimo filone di attività di Cefriel è quello della creazione della cultura digitale all’interno delle imprese, che per noi non significa solo formazione ma mettere a disposizione strumenti diversificati per far si che il valore del digitale possa diffondersi in tutta l’organizzazione. In ultima analisi per noi significa impegnarci per creare energia che aiuti le aziende a sviluppare il proprio business tenendo conto delle potenzialità delle tecnologie.
L’attenzione deve essere posta nello sviluppo di ecosistemi digitali: creare nuove relazioni di business tra più imprese – di distretto o di filiera – con interazioni organiche integrate che permettano di valorizzare lo scambio dati come fonte di competitività.