Con il Piano Industria 4.0 è emersa una capacità di allocare il capitale in maniera più efficiente. Le nuove politiche governative hanno contribuito a rivitalizzare le performance industriali. Industria 4.0 rimane uno dei pochi interventi che nell’arco di vent’anni è riuscito a generare “Good Vibrations” nel sistema industriale italiano. L’analisi di Stefano Firpo, ex direttore Mise ora in quota a Intesa Sanpaolo, intervenuto durante l’incontro “Le novità della legge di bilancio 2020: focus Industria 4.0” presso la sede di Ucimu.
A dicembre la produzione industriale italiana è crollata del 4,3% rispetto allo stesso mese del 2018 e del 2,7% su novembre. Per la prima volta dal 2014 l’intero anno ha accumulato un calo della produzione (-1,3%) sui dodici mesi precedenti. La fotografia scattata dall’Istat è quella di un Paese che non si è ancora risollevato dalla crisi del 2008. Con il segno meno rispetto a novembre i comparti di gomma-materie plastiche ( -6,2%), farmaceutici ( -5,4%), legno-carta ( -5%) e prodotti petroliferi raffinati (-4,2%). L’Anfia, inoltre, segnala che l’auto ha segnato nel 2019 un -19%.
In questo primo scorcio del 2020, gli ingranaggi dell’economia mondiale sembravano volgere al meglio – assorbendo le tensioni legate alla Brexit e lo scampato pericolo di un inasprimento della guerra dei dazi – quando dalla Cina, l’immensa fabbrica asiatica da cui si rifornisce tutto il mondo, è arrivato il coronavirus. Insomma, le sollecitazioni che provengono dai mercati non lasciano dormire sonni tranquilli.
Le condizioni rimangono favorevoli agli investimenti
Eppure, nonostante la criticità che caratterizza l’anno nuovo – come suggerisce Stefano Firpo, responsabile Soluzioni Imprese di Intesa Sanpaolo fino all’anno scorso direttore generale per la politica industriale del Mise – le imprese italiane continuano a godere di una condizione favorevole agli investimenti. «Se si utilizza in maniera intelligente tutto quanto oggi previsto dal piano di incentivi 4.0, estesi e rimodulati in credito d’imposta, ci si può agevolmente avvicinare a un tax rate negativo. La pluralità di forme di finanziamento cui possono accedere le imprese, sommata a un contesto di inflazione contenuta e a uno scenario globale che sembra andare a ricomporre la discontinuità introdotta dalle guerre commerciali, crea condizioni adatte per un rilancio degli investimenti».
Insomma, per le imprese il quadro complessivo che si sta delineando è ancora un’occasione per colmare il gap accumulato nel periodo di crisi più nera e al tempo stesso, un’opportunità per tradurre investimenti in tecnologia in nuovo valore competitivo, di cui abbiamo assoluta necessità poiché la significativa ripresa registrata nel triennio 2016-2018 non ha risolto i problemi di debolezza dell’Italia rispetto a Paesi concorrenti come Francia e Germania.
Per essere più forti, dovremmo infatti correre più dei nostri avversari. Mantenere la stessa velocità di crociera vuol dire soltanto non perdere posizioni ma non aiuta a scalare la classifica dei top performer. E’ in questo senso che il Governo si appresta a varare i decreti attuativi della riforma degli incentivi di Industria 4.0. Si pensa anche a un pacchetto semplificazioni per riportare, entro la legislatura, l’Italia tra i primi 25 Paesi della classifica “Doing Business” che misura la facilità di fare impresa (oggi è 58esima).
La rivoluzione industriale 4.0 si candida a scardinare i fondamenti del B2B e le relazioni con le aziende clienti. Il mondo del machinery deve attrezzarsi per cambiare modello di business e si deve impegnare per progettare un futuro as a service ovvero servitizzare le macchine.
Il focus è sugli investimenti immateriali
Quanto evidenziato da Firpo si presta a una serie di ulteriori considerazioni. L’acquisizione di nuova competitività non è solo un problema di volume degli investimenti, ma di qualità degli investimenti. Il Piano 4.0 così come attualmente strutturato facilita questo percorso poiché può essere declinato e interpretato in molteplici direzioni, che hanno sempre e comunque uno stesso denominatore comune: l’innovazione.
Se la prima fase del Piano si era concentrata soprattutto per agevolare l’acquisto di beni materiali, oggi la logica con cui sono proposti gli incentivi si estende alla dimensione software e a quella della formazione. Il focus si sposta sulle infrastrutture e software e competenze sono gli elementi abilitanti l’acquisizione di nuovo valore d’impresa.
Molte aziende hanno colto l’opportunità degli incentivi fiscali 4.0 provvedendo a rinnovare il parco macchine; adesso è il momento di mettere in moto la seconda fase di questa innovazione che deve necessariamente passare dalla valorizzazione dei dati. Serve una transizione da un’economia del prodotto a un’economia del servizio ovvero a un’economia dell’intangibile.
In questo scenario l’Outcome Economy – fondata sulla digitalizzazione o servitizzazione di asset e prodotti – è il nuovo faro guida; da esso discende un’economia che si basa sul risultato del prodotto e non sul prodotto e dunque, non sul passaggio di proprietà del bene ma sull’uso del bene. Dal dire al fare – lo sappiamo bene – c’è di mezzo al mare ma questa è la prospettiva in cui ci si sta muovendo. Non esiste una risposta facile – fare business diventa oggi una cosa più “ecosistemica” rispetto al passato – ma gli investimenti richiesti iniziano a essere alla portata di molte imprese, indipendentemente dalla loro dimensione.
Se la prima fase del Piano si era concentrata soprattutto per agevolare l’acquisto di beni materiali, oggi la logica con cui sono proposti gli incentivi si estende alla dimensione software e a quella della formazione
Il paradosso della produttività
Per Firpo il problema dei problemi – vero “Tallone d’Achille” dell’economia italiana – è il fattore produttività che da oltre vent’anni è prossimo allo zero. Sembra un paradosso ma non lo è: l’iniezione di tecnologia avvenuta in questo periodo non si è tradotta in una crescita reale. Un fenomeno che richiama quanto affermato da Robert Solow, premio Nobel per l’economia nel 1987: “You can see the computer age everywhere but in the productivity statistics”. Affermazione che suona ancora più vera ai giorni nostri, epoca nella quale l’Intelligenza Artificiale si candida ad essere il nuovo motore dell’economia (vedi riquadro sull’Intelligenza Artificiale). Tuttavia, questo è un fenomeno che si è verificato a livello globale. A questo proposito è utile fare riferimento ai dati che sono sintetizzati nella tabella contenuta nello studio dell’economista Robert Gordon “THE INDUSTRY ANATOMY OF THE TRANSATLANTIC PRODUCTIVITY GROWTHSLOWDOWN”
«E’ come se tutte le rivoluzioni tecnologiche che hanno toccato il mondo, negli ultimi venti anni, non ci avessero manco sfiorato di striscio. Vuol dire che abbiamo un deficit mostruoso di allocazione del capitale», dice Firpo. Tuttavia, ci sono delle note positive. «Con Industria 4.0 qualcosa si è mosso, è emersa una capacità di allocare il capitale in maniera più efficiente». Ringraziamo quindi l’ex ministro Calenda. Il Piano da lui ideato ha contribuito a rivitalizzare le performance industriali. Industria 4.0 rimane una delle poche iniziative che nel corso del tempo è riuscita a generare “Good Vibrations” nel sistema industriale italiano.
Opportunità si stanno inoltre evidenziando per le implicazioni che sottende il tema della sostenibilità digitale che si esplicita negli obiettivi che sono stati espressi nel manifesto Agenda 2030 sottoscritto dai governi di 193 Paesi a livello mondiale. In questo senso vi sono già dei dati su cui poter riflettere. Secondo il presidente dell’Istat Enrico Giovannini, «Le imprese che hanno scelto la sostenibilità come criterio guida di sviluppo hanno un vantaggio in termini di produttività molto significativo rispetto alle imprese classiche: il 15% in più per le imprese molto grandi, il 10% per le grandi e il 5% per le medie».
Machinery, la stella polare del manifatturiero italiano
Se negli ultimi vent’anni l’economia in senso lato non ha espresso dinamiche competitive è altrettanto vero che in alcuni settori del manifatturiero – in primis quello legato alla meccanica strumentale – la produttività è cresciuta moltissimo e questo ha consentito al comparto di aumentare le esportazioni e ritrovare una sua forza competitiva «E’ grazie a settori come questo che l’Italia è ancora un paese che, nonostante il debito pubblico elevato, riesce a stare in piedi e a camminare ancora, consentendo al nostro Paese di poter rappresentare la seconda manifattura del mondo, esportare 600 miliardi di euro nel mondo e avere ancora una quota di mercato globale di un certo peso nonostante i giganti che ci circondano».
Le opportunità stanno anche nell’evoluzione dei paradigmi dell’organizzazione del lavoro, nelle tecnologie abilitanti nuovi modelli di business. «La manutenzione predittiva e, in senso lato, le soluzioni di condition monitoring permettono di immaginare un nuovo modo di fare impresa B2B. In questo scenario, grazie al suo know how e alle sue competenze, l’Italia può esprimere delle straordinarie opportunità».
Serve una transizione da un’economia del prodotto a un’economia del servizio ovvero a un’economia dell’intangibile. L’Outcome Economy – fondata sulla digitalizzazione o servitizzazione di asset e prodotti – è la nuova prospettiva di sviluppo
Se la digitalizzazione B2C ha modificato radicalmente la nostra vita di consumatori, la rivoluzione industriale 4.0 si candida a scardinare i fondamenti del B2B e le relazioni con le aziende clienti. Il mondo del machinery deve dunque attrezzarsi per cambiare modello di business e si deve impegnare per progettare un futuro as a service ovvero servitizzare le macchine.
«Considerata la grande percentuale di fatturato rappresentata dall’export, questa prospettiva potrebbe essere una leva straordinaria per la crescita del nostro comparto sulla scena mondiale poiché i beni strumentali sarebbero in gran parte in mano ad aziende italiane e quindi al Sistema Paese», commenta e conclude Firpo. «Per riuscire a traguardare questi obiettivi, oltre a mantenere sempre viva una grande attenzione sull’hardware, ci si deve focalizzare in particolar modo sui dati e sul software.»
[dropcap style=”default, square, or circle”]…[/dropcap]Ma l’Intelligenza Artificiale è davvero il motore di una nuova produttività?
Nel rapporto pubblicato dall’americano National Bureau of Economic Research – “Artificial Intelligence and the Modern Productivity Paradox: A Clash of Expectations and Statistics” – si offre un interessante contributo alla comprensione delle potenzialità dell’intelligenza artificiale. Gli autori – professori del Mit di Boston e dell’Università di Chicago – si dichiarano convinti che l’Ai possa offrire una innovazione sostanziale e un possibile incremento di produttività, a patto che si creino e si affermino veri e propri ecosistemi in grado di imprimere un’accelerazione e diffusione sistemica delle nuove tecnologie.
Perché si possa pienamente affermare un nuovo corso industriale – la cui spinta propulsiva derivi dall’Intelligenza Artificiale in ogni sua possibile declinazione, a livello di prodotti, processi e servizi – serve e servirà tempo. I progressi sono incoraggianti, ma da qui a pensare che nel giro di pochi anni l’economia del pianeta possa re-ingegnerizzare il proprio Dna attorno ai microsomi dell’AI, andando a stabilire nuovi indici di produttività e nuova occupazione, ce ne passa.
Tra le varie declinazioni dell’intelligenza artificiale spicca il Machine Learning, ovvero la capacità di un sistema – attraverso algoritmi ereditati da logiche neurali – di apprendere e autonomamente sviluppare in modo incrementale una propria super intelligenza. Tuttavia, le espressioni reali di questi potenziali sviluppi sono ancora confinate all’interno di progetti e soluzioni elitarie. Siamo ben lontani dall’aver traguardato una diffusione tale da permettere un salto significativo in termini di produttività.
E’ sbagliato pensare che l’intelligenza artificiale sia la panacea per l’efficienza assoluta. Non è la polverina magica che crea la nuova impresa digitale. A questo riguardo sono interessanti le opinioni del professore del Mit, Daron Acemoğlu, autore del libro “Why the Nations Fail”. Acemoğlu sostiene che l’intelligenza artificiale sia largamente fraintesa e, soprattutto, che la sua importanza sia enormemente esagerata. Il rischio che tolga posti di lavoro è di gran lunga inferiore a quanto si va dicendo.