La grande crisi prodotta dal coronavirus si rivelerà un’occasione per ripensare la globalizzazione e il libero mercato? Mai come in questo momento il modello economico del nuovo millennio è stato messo in discussione. Come gli anatonomopatologi indagano sullo stato di alterazione indotto da stati di malattia per capire le possibili cure da mettere in atto e ristabilire condizioni di vita ottimali di un organismo, esperti del mondo economico e finanziario, politici e sociologi, si domandano se qualcosa debba davvero cambiare per riuscire a restituire dinamicità a un modello ormai logoro, incapace di dare risposte alla complessità del mondo. (by Pm)
A settembre, in epoca pre-covid, il Financial Times, voce dell’intellighenzia economica e indiscusso e autorevole giornale della City di Londra, ha titolato la sua copertina “Capitalism, time for a reset”. Che si stia vivendo un momento particolare e unico trova concordi molti ed esperti e osservatori. Sono gli stessi protagonisti del libero mercato a chiedere quella che un tempo era un’eresia ovvero la riforma dei principi del capitalismo stesso. Un processo che sembra diventare ancora più reale alla luce delle disfunzioni globali prodotte dal Covid-19.
Una riflessione che si allarga alle stesse multinazionali che hanno plasmato la trasformazione digitale. In una lettera pubblicata lo scorso agosto sul New York Times i 180 più importanti amministratori delegati degli Stati Uniti, tra cui Jeff Bezos di Amazon e Tim Cook di Apple, hanno annunciato che d’ora in poi le loro società non perseguiranno più soltanto l’interesse dei manager e degli azionisti , ma terranno conto anche del benessere di dipendenti, clienti e della società più in generale. Come scritto sul Post, “Cook e Bezos si sono aggiunti all’elenco sempre più lungo di grandi capitalisti secondo i quali esiste un nesso tra l’aumento delle diseguaglianze economiche e la ribellione più o meno spontanea e indirizzata dei milioni di persone che del capitalismo del nuovo millennio hanno conosciuto solo il volto più duro”.
Tutto vero dunque quanto annunciato dai Big dei mercati o è la solita retorica condita da vuoti messaggi inneggianti la sostenibilità d’impresa, l’ennesimo tentativo di cambiare tutto per non cambiare nulla ovvero perpetuare la sostanza modificandone soltanto le forme? Abbiamo bisogno di un’economia capitalista dinamica, sostiene il Financial Times, «ma sempre più spesso ci troviamo di fronte a un capitalismo instabile che vive di rendita, alla mancanza di concorrenza, alla stagnazione della produttività, all’aumento delle diseguaglianze e, non a caso, a un crescente degrado nella qualità della democrazia».
Possiamo anche credere alle esternazioni dei paladini del nuovo capitalismo del volto umano ma vale la pena ricordare che, grazie a un regime di un monopolio di fatto, aziende come Facebook, Apple, Amazon, Netflix, Google e Microsoft – il cui potere si esprime in una capitalizzazione che vale circa un quinto dell’indice S&P 500 – possono estrarre enormi rendite dal resto della società. Secondo il Fondo monetario internazionale, grazie a pratiche di elusione fiscale ogni anno svaniscono oltre 450 miliardi di dollari che vengono sottratti ai governi del mondo sviluppato. E’ accettabile che aziende come queste registrino sette volte più profitti nei paradisi fiscali che nelle sei più grandi economie mondiali messe insieme?
Il problema di fondo, secondo il punto di vista espresso dagli “anatomopatologi” che indagano sulla malattia del capitalismo del nuovo millennio, è che l’attuale sistema economico da tempo abbia cessato di produrre risultati desiderabili per milioni di persone. In sintonia con queste affermazioni – soprendente? – lo stesso Klaus Schwab, fondatore e direttore del World Economic Forum. In buona sostanza la sintesi è questa: il modello di business della nuova economia è malato, esso produce, per come agiscono oggi le imprese, la finanza e gli Stati, una povertà e una diseguaglianza tali che, di fronte a una nuova consapevolezza maturata nella società civile, genera un conflitto ingovernabile e inarrestabile. Bisogna porvi rimedio.
Per il Financial Times il simbolo di questo sistema è la crescita smisurata del settore finanziario. Perché, infatti, investire in una nuova e rischiosa tecnologia, come automobili che consumano meno, quando speculare sul mercato dei derivati offre ritorni dieci volte maggiori? La schizofrenia e distorsione dei mercati non è soltanto ravvisabile in una caduta improvvisa caduta dei mercati. Tra gennaio e marzo 2020 il valore della capitalizzazione globale è crollato di oltre il 30%, un evento eccezionale. Ma non è altrettanto eccezionale e discutibile un mercato che altrettanto velocemente può crescere nella stessa misura? Qualcosa non funziona.
Coronavirus o meno, un settore finanziario ipertrofico finisce inevitabilmente per incubare una crisi: la crescita abbassa i rendimenti degli investimenti, il che spinge i finanzieri a fare scommesse sempre più rischiose per assicurarsi un ritorno. Prima o poi – come scritto in un articolo sul Post – una bolla inizia a gonfiarsi e finisce con l’esplodere, ma raramente è il settore finanziario a pagarne il conto. Se una bolla diventa grande abbastanza, cioè abbastanza grande da minacciare il resto dell’economia in caso di fallimento, l’inevitabile crisi finisce poi con l’essere pagata dal resto della società. Gli stati si indebitano per salvare i loro settori finanziari, welfare e pensioni vengono tagliate, mentre manager e azionisti continuano a distribuire bonus e dividendi.
Insomma, quanto sta accadendo in tempi di Covid-19 – al di là della drammaticità che presenta sul fronte sociale – potrebbe portare un nuovo e positivo vento di cambiamento ribaltando regole e modelli di business consolidati. Sempre che il dibattito non si esaurisca nella solita retorica dei salotti buoni.