La pandemia ha reso manifeste tutte le criticità delle supply chain, divenute nel corso degli anni e della globalizzazione sempre più ramificate e poco controllabili. Prima il lockdown in Cina, poi l’epidemia in Europa e resto del mondo, stanno mettendo in difficoltà molte imprese. Per comprendere gli impatti che Covid19 ha generato sulle imprese, il Laboratorio RISE dell’Università degli Studi di Brescia – in collaborazione con ASAP Service Management Forum e IQ Consulting – ha effettuato un’indagine volta ad analizzare le conseguenze sul sistemi logistico produttivo e sul business delle aziende manifatturiere e di servizi al prodotto. L’indagine ha coinvolto 180 aziende, di cui 145 classificate come “prodotto-centriche”, manifatturiere o di distribuzione e servizio su prodotti fisici. Dalla ricerca emerge che solo poco più del 50% delle aziende italiane ha un sistema di monitoraggio del rischio di fornitura. E quando esiste, non sempre si dimostra strutturato e completo: solo un’azienda su 3, infatti, monitora più dell’80% dei fornitori. Ma veniamo all’analisi che il RISE ha realizzato in merito all’attuale fragilità della supply chain ereditata da oltre un ventennio di globalizzazione.
Le supply chain che nel tempo si sono generate sono caratterizzate sia da un numero elevato di interconnessioni sia da grandi concentrazioni geografiche nei paesi più colpiti come la Cina, e più in generale il sud est Asiatico.
La grande criticità, tuttavia, non riguarda tanto la localizzazione geografica del fornitore ma la distribuzione degli attori sull’universo planetario: il contagio e il conseguente lockdown non sono circoscritti, come in altri tipi di crisi, ad un solo territorio e ad un solo gruppo di imprese, con il risultato che l’impatto avviene a ruota, su una buona parte delle filiere, in tempi diversi e con effetti diversi.
Se nel passato, con l’adozione di leve “singole” era possibile superare la crisi perché un attore poteva essere facilmente sostituito, la parola d’ordine in questa fase è “collaborazione”: solo così l’intera filiera può galleggiare nell’attesa di riprendere a remare a pieno ritmo.
Supply Chain Disruption
La moderna evoluzione delle catene del valore ha spinto le aziende a deverticalizzare la propria supply chain, delegando parti crescenti delle proprie attività core a fornitori di primo, secondo e terzo livello, capaci di realizzare in tali attività considerevoli economie di scala o di scopo.
Il fenomeno di progressiva apertura delle imprese anche medio-piccole ai mercati internazionali, noto con il nome di globalizzazione, ha inoltre portato le imprese ad adottare politiche di global sourcing proprio per reperire a livello mondiale quei fornitori capaci di assicurare le economie sopra rammentate.
Come conseguenza di questi fenomeni non è infrequente trovare aziende (non necessariamente commerciali) dove il 60, 70 o addirittura 80% del fatturato è costituito da materiali acquistati da fornitori localizzati anche in aree molto remote del pianeta.
Queste progressive trasformazioni delle supply chain hanno però anche impattato sulla loro stabilità, generando filiere lunghe e quindi intrinsecamente poco trasparenti e controllabili. Tutto ciò ha contribuito a ridurre le alternative di fornitura, e quindi la resilienza delle catene del valore rispetto alle perturbazioni, rendendo inevitabilmente meno ripetitivi e prevedibili i mercati ed infine aumentando la dipendenza delle imprese da infrastrutture critiche, come quelle che generano, raccolgono e condividono i dati. Non è un caso se questi sono stati anni caratterizzati da una crescente instabilità.
La fragilità di queste filiere diventa evidente soprattutto in periodi di crisi: il Covid19 sta mettendo in luce i limiti di questo tipo di gestione. Tra le altre leve, le aziende troverebbero nella gestione del rischio di fornitura un importante strumento per conoscere preventivamente gli impatti che potrebbero generarsi in momenti di simil crisi, ma non tutte le mettono in atto.
Supply Risk Management
Il fenomeno della globalizzazione e la rincorsa sempre più serrata alla competizione sul prezzo hanno spinto numerose aziende alla delocalizzazione della produzione o, ancora più in larga parte, alla pratica del global sourcing, che implica di ricercare fornitori anche molto lontani per accedere a vantaggi di prezzo.
Il modello Global Sourcing, soprattutto se non supportato da un adeguato livello di integrazione a base informativa, è penalizzato da lead time più lunghi ed incerti, da scarsa flessibilità, a causa dell’esigenza di procedere al trasporto via mare, e da scarsa trasparenza e visibilità sulla filiera.
Per compensare questo svantaggio bisogna potersi fidare dei propri partner: a questo scopo il fornitore deve essere valutato a tutto tondo, poiché i frutti vincenti della relazione, il contenimento degli impatti negativi e la velocità di ripresa in caso di disruptions dipendono proprio dall’affidabilità che la singola relazione può garantire.
Analizzare per esempio il rischio del Paese in cui il l’azienda fornitrice si trova può evidenziare la necessità non solo di adottare un fornitore di backup, ma anche di ricercarlo e di attivarlo in un Paese diverso da quello del fornitore principale: l’attuale emergenza coronavirus ci spinge ad immaginare ad un mercato contraddistinto dal fenomeno dance, in cui si alterneranno lock-down a macchia di leopardo, mirati a contenere i nuovi focolai. Il trend sarà quindi molto altalenante poiché costituito da microfasi in cui ogni elemento della filiera potrebbe interrompere la propria attività in modo asincrono e non prevedibile sulla base del contagio che si amplia o si riduce.
La difficoltà consisterà nel coordinare le forniture che provengono dai diversi Paesi, valutando correttamente il rischio connesso a ciascuna di esse. In questo caso, il rischio complessivo sarà tanto minore quanto più flessibile e strutturata sarà la rete di fornitura.