Nel corso degli anni la produzione manifatturiera è diventata sempre più dipendente da forniture che appartengono a Catene Globali del Valore. Ora la crisi COVID-19 ha messo in evidenza come l’integrazione globale possa costituire una grande vulnerabilità in termini di approvvigionamento delle forniture. La pandemia – scrive Domenico Bevere, analista Ispi – ha sconvolto la complesse catene con cui materie prime, semilavorati e prodotti finiti fanno il giro del mondo e ad aggravare la situazione vi sono stati, poi, lo sfasamento temporale del contagio e dei vari lockdown.
La domanda ricorrente è se il Covid metterà fine alla globalizzazione come la si è finora conosciuta o se vi sarà un ritorno al nazionalismo economico con conseguente riposizionamento delle catene di approvvigionamento per i beni e servizi critici. L’ipotesi più verosimile è che si vada verso una globalizzazione 2.0 molto più diversificata. Un fenomeno che potrebbe rivelarsi un vantaggio per nuovi investimenti a livello locale e ridistribuzione della produzione a livello globale, dove le partnership potrebbero estese ad altre aree del mondo, andando a creare un sourcing alternativo in grado di attenuare eventuali rischi emergenziali.
E’ una questione che coinvolge tutte le aziende manifatturiere presenti nel mondo, non esclusa ovviamente l’Italia. Il contributo del settore è rilevante ed esprime un fatturato il cui sottostante è fortemente dipendente dall’efficienza delle catene globali del valore. Il grafico (fonte Ispi) seguente evidenzia l’interdipendenza globale della manifattura italiana, così come quella di altri Paesi dal contesto commerciale internazionale.
L’interdipendenza non si risolverebbe certo riportando la produzione sul territorio nazionale. Questo aspetto favorirebbe se mai l’occupazione. Ma se materie prime semilavorati e quant’altro dovessero continuare ad arrivare da altri Paesi non si risolverebbe il problema di fondo. Ad avvantaggiarsi nel procedere in questa direzione vi sono eventualmente quei Paesi che possono contare sull’espansione dei consumi interni, una condizione che riguarda soprattutto le economie “emergenti”, che di fatto emergenti non sono più (Cina e India sono rispettivamente la seconda e quinta potenza economica globale con una popolazione complessiva superiore ai due miliardi di persone).
Come spiega l’Ispi, la ricerca della resilienza ha incoraggiato diverse imprese multinazionali a diversificare le proprie catene di approvvigionamento al fine di mantenere economie di scala, costi ragionevoli e opportunità di innovazione. Tra le opzioni individuate vi sono: 1) rafforzare la capacità del Paese di origine per affrontare problemi di sicurezza relativi a prodotti ritenuti essenziali; 2) espandere il numero di siti di produzione internazionali per evitare eccessiva dipendenza; 3) individuare mercati finali ampi e in crescita che possano essere serviti da reti di produzione internazionali; 4) sviluppare partnership di produzione, ricerca e marketing con aziende di settori correlati.
Insomma, tutto lascia presagire che un’inversione della globalizzazione – seppur destabilizzata dalla recessione economica del 2008-2009, dalla rivoluzione digitale, dalle ondate di nazionalismo economico e populismo del 2016 e la pandemia da COVID-19 – appare quantomeno in dubbio e fa presagire un sistema internazionale più frammentato, multipolare e orientato a livello regionale. Come conclude la riflessione dell’Ispi, “Un ritorno al nazionalismo economico, scenario utopistico e considerato l’alternativa alla globalizzazione, comporterebbe il crollo dell’economia mondiale nonché l’ulteriore aumento delle tensioni internazionali“.