«Ai tempi dell’Urss, l’Unione Sovietica aveva la buona prassi di non dare mai a uno dei suoi Paesi satelliti l’intera catena del valore delle varie attività industriali. Perché? Semplice, non voleva che mai e poi mai uno di questi diventasse troppo bravo per potere affrancarsi dal sistema. Storicamente la leadership meccanica della Polonia deriva proprio dal fatto di essere stata per lungo tempo il partner produttivo dell’industria sovietica». Inizia con queste premesse il confronto con Piero Cannas, Presidente della Camera di Commercio Italo-Polacca. Ecco quanto ci ha raccontato sulle prospettive del mercato e sulle opportunità per le aziende italiane.
Una volta caduto il muro di Berlino e iniziata la dissoluzione dell’impero sovietico le competenze ereditate dal passato sono state fondamentali per la rinascita della nostra indipendenza economica La disponibilità di manodopera specializzata, di competenze e know-how ha fatto sì che la Polonia diventasse l’hub naturale di tutta l’industria meccanica europea, soprattutto automobilistica.
Dopo 30 anni di vita democratica e libero mercato la manodopera e le competenze sono rimaste. I costi del lavoro non sono più quelli di 30 anni fa, ma rimangono comunque competitivi rispetto a quelli di Germania e Italia, ovvero i due Paesi che vantano la più alta produzione manifatturiera europea.
L’ingresso nel 2004 nell’Unione Europea ha poi determinato un’accelerazione senza precedenti dello sviluppo industriale. Il Governo polacco è infatti riuscito ad accedere a fondi europei che hanno consentito di incrementare progressivamente il valore del comparto manifatturiero e industriale. Da allora tantissime aziende sono venute in Polonia per creare nuove produzioni. Si erano create le condizioni ideali perché questo potesse avvenire: manodopera specializzata, costo del lavoro inferiore alla media europea, sovvenzionamenti che coprivano fino al 50% del costo degli investimenti.
A tutto questo si deve aggiungere il fatto che la Polonia rappresenta un punto strategico dal punto di vista geografico: confina con la Germania, con la repubblica ceca e la Slovacchia e rappresenta la frontiera dell’Unione Europea con tutto ciò che è a Est, vale a dire Bielorussia e Ucraina. Non solo, con la creazione della Belt Road cinese, la nuova via della seta, costituisce un punto logistico nevralgico per l’interscambio commerciale Cina-Europa.
Uno scenario che apre nuove ulteriori prospettive di sviluppo, considerato che quanto accaduto con la pandemia nel corso del 2020 mette in discussione le catene globali del valore. Molte aziende europee che hanno una produzione in Cina stanno prendendo in considerazione interventi di re-shoring, ovvero riportare la produzione a livello locale, se non nel proprio Paese quanto meno nell’Unione Europea. Questo permetterebbe di avere catene di fornitura più corte e non sostenere costi complessivi che non sono più così attraenti come lo erano 10, 20 anni fa. Il costo del lavoro in Cina, infatti, è ormai più o meno allineato a quello di un Paese dell’Est Europa.
Quando si valuta dove avviare una nuova produzione, la Polonia è tanto competitiva quanto lo può essere la Cina. Un esempio è quello di un’azienda italiana che ha deciso di aprire un importante stabilimento per la produzione di componentistica per uno dei più importanti marchi dell’automotive tedesco.
Opportunità per le aziende manifatturiere italiane, per costruttori di macchine e sistemi industriali, possono anche nascere dal fatto che molti siti produttivi presenti in Polonia devono fare il salto a Industria 4.0. Per riuscire a essere concorrenziali non basta più come avvenuto in passato avere grande disponibilità di manodopera a costi competivi, serve innovazione tecnologica e di processo.
Ci sono tante aziende che hanno necessità di implementare nuovi processi produttivi, guidati più dalle macchine che dall’uomo, perché anche in Polonia si inizia ad avere difficoltà a reperire risorse e competenze qualificate. Per chi le ha l’unico problema è scegliere dove lavorare. Il tasso di disoccupazione a fine 2019 era attorno al 5% ma nelle aree maggiore contrazione industriale non superava l’1,7%, vale a dire una disoccupazione fisiologica di chi il lavoro non lo sta cercando.