Appare sempre più evidente che i risultati economici tendono ad affermarsi in quelle realtà dove più forte è la propensione al cambiamento. Un qualcosa, il cambiamento, che non si può improvvisare, che non può essere una via di fuga o un semplice escamotage, ma che deve essere inteso come parte integrante della cultura aziendale ovvero diventare un present continuous tense.
di Piero Macrì
La favorevole congiuntura che sta soffiando sull’Europa lascia ben sperare, tanto da far ipotizzare per il biennio 2018/2019 un andamento positivo reiterando così le performance del 2017, anno primo dell’emersione dalla decennale crisi. Siamo in presenza di una condizione macroeconomica che potrebbe favorire gli investimenti nell’Information Technology e nell’Automazione Industriale.
Eppure, se nel corso dell’ultimo triennio l’Italia ha beneficiato della ripresa globale, recuperare la ricchezza perduta non sarà immediato. Come si afferma in un recente rapporto del Centro Studi di Confindustria, “pur riuscendo a ridurre il divario di incremento con il resto dell’area euro, il Pil viaggia su valori ancora distanti dal picco pre-crisi, tanto che nel 2019 si prevede che un fatturato Italia ancora inferiore a quello conseguito nel 2007″. Con un tasso di crescita medio dell’1% – affermano gli analisti – il recupero completo potrà avvenire solo a partire dal 2021. A meno che non si avverino le ottimistiche previsioni del nuovo Governo che indicano una crescita media intorno al 2,5%.
L’andamento dell’indice demografico aziendale
Da un punto di vista generale la crisi del nuovo millennio ha provocato un vero e proprio tsunami. Cribis – società del Gruppo Crif specializzata nella business information, che ha indagato sui fallimenti delle imprese italiane – rivela che nel periodo 2009-2016 sono state ben 101.634 le aziende che hanno cessato l’attività, per una media di 12.704 all’anno! Relativamente meno pesante la dinamica riscontrata nel 2017, anno in cui l’indice di mortalità è stato di 8.656 imprese, numero sempre elevato, ma in netto calo rispetto alle cifre degli anni precedenti.
Negli ultimi 8 anni, nel comparto industriale, hanno cessato la propria attività 16 mila imprese. Dati negativi, certo, ma che devono essere inquadrati all’interno del più ampio contesto demografico d’impresa. Secondo i dati Istat l’indice di natalità delle imprese, ovvero il rapporto tra tasso di nascita e mortalità, dal 2009 al 2015 ha espresso infatti un turnover negativo pari all’1,6%. Insomma, la crisi ha prodotto anche anticorpi che hanno permesso una rigenerazione delle attività imprenditoriali, riportando a valori prossimi allo zero il tasso demografico.
A questo riguardo è interessante notare che nel comparto dell’Industria, sempre secondo dati Istat, i tassi di natalità e di mortalità sono inversamente correlati al livello di intensità tecnologica. E’ chiaro, quindi, che dove prevale l’investimento tecnologico vi sono più opportunità di una crescita sostenibile, al contrario di quello che succede nei comparti caratterizzati da un basso profilo tecnologico, più vulnerabili ed esposti a rischio di fallimento.
Un possibile Rinascimento
E’ innegabile, l’industria italiana sta esprimendo una dinamica più che positiva. E’ vero, nel corso di questa lunga crisi una parte delle imprese che esisteva fino a dieci anni non è più sul mercato, ma nello stesso tempo si sono consolidate quelle realtà che hanno dimostrato più resilienza alla negatività espressa dai mercati e alla debolezza del contesto finanziario.
Si parla di una rinascita dell’industria italiana. Le aziende più forti, quelle che sono riuscite a passare indenni la micidiale crisi protrattasi a partire dal 2007, sono più forti di prima: hanno investito in innovazione, hanno migliorato la produttività, si sono allargate su nuovi mercati e stanno cogliendo i frutti delle opportunità che possono nascere da un mercato globalizzato.
Sono i dati a parlare. Nel 2017 (dati Ucimu) la produzione mondiale di macchine utensili è cresciuta del 6,4%, per un valore di 75.100 milioni di euro. Le esportazioni si sono attestate a 3.385 milioni di euro, il 4,1% in più rispetto all’anno precedente (+ 3,3% in termini reali), assicurando nuovamente all’Italia il terzo posto tra gli esportatori, alle spalle di Germania e Giappone.
Gli ingredienti della ripresa
Si parla tanto del Piano Industria 4.0, ma a ben vedere la capacità di resistenza e di innovazione espressa dalle imprese, in particolare nel settore manifatturiero, non sono tanto correlate agli incentivi fiscali: i risultati e le performance nascono essenzialmente dalla capacità imprenditoriale e da una visione strategica coerente con l’evoluzione dei mercati così come dalla consapevolezza che una qualsiasi attività deve necessariamente essere sostenuta da una continua ricerca e sviluppo nella tecnologia. I risultati positivi si sono inoltre evidenziati in quelle realtà dove più forte è stata la propensione al cambiamento. Un qualcosa, il cambiamento, che non si può improvvisare, che non può essere una via di fuga o un semplice escamotage, ma che per produrre risultati tangibili in termini di performance di business lo si deve intendere parte integrante della cultura aziendale.
Il piano Industria 4.0 ha avuto il pregio di favorire tutta una serie di leve a livello fiscale, e senza dubbio ha contribuito ad accelerare la ripresa, permettendo un ammodernamento più esteso del settore, con ricadute positive in termini di riqualificazione e re-ingegnerizzazione della produzione. Serve comunque altro per stabilizzare la crescita: una politica industriale che renda sostenibile un percorso da molti già avviato e la capacità, da parte delle imprese, di introdurre un più elevato indice di ottimizzazione e di innovazione, riuscendo a mettere a punto nuove iniziative e modelli di business in grado di sfidare la competizione a livello globale. E’ su questo punto che si giocherà la possibilità di sfruttare al meglio quella che sembrerebbe essere l’inizio di una nuova età dell’industria italiana. Digitale, forse, ma soprattutto imprenditoriale.