La crisi coronavirus ha evidenziato la fragilità delle attuali supply chain. Il modello che si è imposto nel ventennio della iper-globalizzazione è messo in discussione. I dati più recenti mostrano l’impatto devastante che si sta riflettendo sulle tre più grandi economie globali (Usa, Eruopa e Cina). I fondamentali dell’attuale commercio internazionale sono destinati a cambiare. Come riuscire a ripensare la catena di approvvigionamento per rendere le imprese più resilienti? Come risolvere i rischi di un’interconnessione globale? La parola chiave è diversificazione. Un concetto che è ben chiaro nel mondo della finanza, ma che non è ancora stato pienamente acquisito in una dimensione d’impresa. Una cosa è certa: la diversificazione in termini di global sourcing dovrà essere accompagnata da un utilizzo più intensivo della digitalizzazione.
Non è la fine della globalizzazione, piuttosto una globalizzazione 2.0 che prefigura una supply chain molto più diversificata: un fenomeno che potrebbe rivelarsi un vantaggio per nuovi investimenti a livello locale – l’idea di avere filiere industriali con un grado di autonomia più elevato e impliciti effetti in termini di reshoring– e ridistribuzione della produzione a livello globale, dove le partnership potrebbero estese ad altre aree del mondo, andando a creare un sourcing alternativo in grado di attenuare eventuali rischi emergenziali.
Come evidenzia la recente analisi dell’Ispi, “La contrazione delle attività economiche durante e dopo la pandemia ridurrà la domanda a lungo termine di trasporto merci. Le decisioni prese dalle aziende in fase di adattamento a queste dinamiche trasformeranno permanentemente le vecchie supply chain, stabilendo così nuove reti di distribuzione e approvvigionamento. In questi processi strategici le imprese troveranno particolarmente arduo ricostituire supply chain che includono fornitori di piccole o medie dimensioni. Molti di questi infatti potrebbero non sopravvivere alla crisi, e quelli che ci riusciranno avranno bisogno di più tempo per rialzarsi e adattarsi alle variazioni della domanda.
I ricercatori dell’Ispi sono peraltro convinti che la potenziale scarsità di alcune merci e componenti ostacolerà ulteriormente la fase di ripresa. “L’Unione Europea ѐ fortemente integrata nelle supply chain intercontinentali, alle quali contribuisce con il 30% delle esportazioni globali di beni intermedi non-alimentari e non-combustibili. I recenti blocchi delle attività produttive in Europa – e i loro effetti di lungo termine – rischiano di avere un impatto dirompente sulle supply chain globali”
Queste dinamiche porteranno verosimilmente un gran numero di aziende a ripensare le loro supply chain dando maggiore importanza al fattore “rischio” a discapito di soluzioni a basso costo, favorendo la transizione verso una diversificazione dei fornitori (e in particolare verso l’approvvigionamento locale).
La situazione attuale appare estremamente critica. Le fabbriche stanno progressivamente riaprendo ma il consumo sta calando. In Cina le attività sono rifiorite non appena le fabbriche hanno riaperto e il lockdown è terminato, ma si è ora di fronte a una fase di stagnazione. La “fabbrica del mondo” è in stand-by poiché i principali partner commerciali internazionali sono in aree a rischio. Non solo, secondo le ipotesi più accreditate dovremo far fronte a nuove ondate di contagio. Il che significa dover essere preparati a una possibile limitazione delle attività anche in un prossimo futuro.
Un quinto del PIL della Cina dipende dall’export. Finche non vi sarà un ritorno alla normalità il consumo domestico, privato dall’ossigeno dell’export, non sarà in grado di assicurare una piena ripartenza. La famosa ripresa a V lascia spazio a una più lenta ripresa a U, probabilmente una U molto allungata. Secondo una ricerca di PWC solo il 56% delle imprese ritiene di poter tornare al business as usual in soli tre mesi.
Il quadro con cui ci stiamo confrontando è ben evidenziato dai forniti da Tradeshift la piattaforma di supply chain management globale. Secondo Tradeshift gli effetti dello shock iniziale è probabile che continueranno anche nei prossimi mesi. In Cina, a partire dalla meta di febbraio, le transazioni associate al commercio internazionale hanno avuto una diminuzione costante settimana per settimana Una tendenza che si è poi estesa ad Europa, Regno Unito e Stati Uniti a mano a mano che la pandemia si estendeva nelle diverse aree geografiche. Da febbraio ad aprile il volume delle transazioni ha subito una contrazione di oltre il 30%.
Per le supply chain la diversificazione va di pari passo con la gestione del rischio. Secondo i dati in possesso da Deloitte, prima della diffusione del Covid-19, un’impresa su due, attiva in Italia e in Europa, affermava che la cultura del risk management era diffusa all’interno della propria organizzazione. I principali rischi identificati erano per lo più di natura operativa, percepiti come i più concreti e di maggiore portata per l’organizzazione. La crisi che stiamo vivendo, ha sicuramente accelerato il processo di adozione di pratiche di gestione del rischio, con effetti anche nelle aziende meno strutturate.