Le “Grandi Dimissioni” post-pandemia sono partite in America già dall’inizio del 2021, ma tra aprile e settembre dello scorso anno, si è assistito a un vero e proprio esodo di massa che ha visto oltre 24 milioni di dipendenti in USA lasciare il proprio posto di lavoro. Ma sembrerebbe che il fenomeno stia prendendo progressivamente piede anche in Europa e in Italia. Ridefinire la “nuova normalità” all’interno di un workspace ibrido potrebbe essere la soluzione per contenere questo trend.
Chi lo avrebbe mai detto che anche nel nostro Paese, dove ha sempre imperato la cultura del posto fisso, il fenomeno delle «Grandi dimissioni» avrebbe cominciato a contaminare anche gli italiani! E non si tratta solo di top manager che, dopo anni di immersione totale nel business a fronte di stipendi da capogiro, decidono di tirare i remi in barca e di “godersi la vita”, ma ciò sta avvenendo anche a livello impiegatizio e addirittura nell’ambito della mano d’opera industriale.
Un fenomeno confermato dai dati del Ministero del Lavoro che, in un’analisi per il periodo compreso tra aprile e novembre 2021, ha comunicato che le dimissioni volontarie sono pari a 1.195.875 , con un aumento del 23,2% rispetto allo stesso periodo del 2019.
Diversi sono gli studi che stanno analizzando il problema, e sembrerebbe che le ragioni siano diverse e profonde e che riguardino sia la sfera personale, sia quella economica: si cercano lavori migliori, meglio pagati e più sostenibili. Attenzione, però, non si tratta semplicemente di un prevedibile effetto rimbalzo post-pandemia, nel senso che il fisiologico turnover tipico di ogni azienda si è bloccato durante i vari lockdown e poi è esploso in modo massiccio nel periodo successivo, ma di qualcosa di più complesso e radicale. In realtà, quello che oggi spinge in tanti a lasciare il proprio lavoro dipende da un insieme di fattori: sicuramente ha pesato moltissimo, come conseguenza della pandemia, una rivalutazione del valore del tempo libero e della famiglia e, contestualmente, una presa di coscienza circa condizioni lavorative, talora, troppo pesanti in termini di ore e di pressione psicologica. A questo si è aggiunto, dopo un periodo di congelamento, anche una forte e aumentata domanda delle aziende in diversi settori e, di conseguenza, una maggiore offerta per alcune categorie di lavoratori, che si sono trovati nelle condizioni di poter scegliere di cambiare posto di lavoro, a fronte di una proposta economica più allettante e di mansioni più gratificanti.
Quanto ha influito l’adozione dello Smart Working?
Senza dubbio, a innescare questa tendenza ha contribuito in maniera rilevante anche l’ampia diffusione dello smart working, una modalità di lavoro che prima della pandemia era ancora poco diffusa tra le aziende italiane. In effetti, nel 2020 molti lavoratori, malgrado le restrizioni dettate dai diversi lockdown, hanno avuto modo di apprezzare i tanti aspetti positivi del lavoro flessibile e a distanza, quale la drastica riduzione dei tempi di spostamento casa-lavoro; la possibilità di vivere maggiormente la propria famiglia e i propri affetti nella quotidianità, cosa che prima era relegata alle ore serali, ai week-end e alle ferie; riuscire a ritagliarsi del tempo per coltivare passioni e interessi personali. Insomma, le persone hanno scoperto che può esistere una nuova modalità di lavoro, lontana dai ritmi frenetici e alienanti di un tempo, ma altrettanto – se non maggiormente – produttiva. A fronte di tutto ciò, oggi, i lavoratori non vogliono più rinunciare a questi benefici e, in virtù di questo, potrebbero non esitare troppo ad abbandonare il proprio posto di lavoro, se le aziende non dovessero continuare a concedere questa flessibilità. Dunque, dopo due anni di instabilità economica e sociale, la gente è disposta a lasciare il certo per l’incerto, se questo significa maggiore serenità e maggiore attenzione per la propria salute.
Tutto ciò è assolutamente comprensibile, ampiamente condivisibile, ma il rischio che si corre è che si vada verso un impoverimento generale, una precarietà e vulnerabilità del nostro tessuto economico e sociale.
Cosa fare per contenere questa tendenza?
In questo periodo si è spesso sentito parlare di “New Normal”, ovvero un nuovo paradigma di normalità che riguarda nuovi comportamenti, abitudini e tendenze adottate a seguito di un periodo di crisi, che differiscono da un precedente status quo. Non si tratta di un modello transitorio fino a quando si ristabilisca la “vecchia normalità”, visto che questa ormai appartiene al passato, ma di un nuovo assetto che porta con sé moltissime delle consuetudini che abbiamo creato, metabolizzato e fatto nostre durante questo periodo di pandemia. Ed è con questi nuovi parametri che le aziende e i datori di lavoro devono fare i conti, a incominciare dallo smart working, una modalità di lavoro resasi necessaria durante l’era Covid, ma che ormai fa parte di noi e che non potrà essere accantonata.
Però, se è vero che lo smart working ha i suoi lati positivi (maggiore flessibilità nell’autogestione del lavoro, abbattimento dei costi di trasporto e di gestione degli spazi fisici, maggiore equilibrio tra vita professionale e vita privata), è vero anche che il lavoro in ufficio ha un impatto positivo sul benessere mentale dei dipendenti, sulla socialità, sulla capacità di confronto e condivisione, soprattutto dopo questo lungo periodo di restrizioni e chiusure.
L’ufficio, dunque, deve continuare ad ad avere un ruolo fondamentale. Di fatto in futuro sarà inevitabile che le persone lavorino sia a distanza sia in presenza: il giusto mix sarà l″hybrid workplace’, ovvero un nuovo modo di lavorare tra esperienza fisica e digitale.
Combinare lavoro in presenza e lavoro a distanza è già il trend delle aziende che guardano in prospettiva, ma bisogna imparare a farlo bene: Il vero smart working non consiste soltanto nel dare alle persone la flessibilità e gli strumenti per poter lavorare a casa, in ufficio o in qualsiasi altro luogo, ma il punto chiave è trovare il giusto bilanciamento tra attività in presenza e attività remota, tra esperienza fisica e digitale. Non c’è una ricetta uguale per tutti, dipende in primis dall’organizzazione del lavoro, da una nuova modalità di assegnare obiettivi, da una ridefinizione dei flussi e, non ultimo, dalle singole persone. Si tratta evidentemente di un tema di management in cui le capacità di includere e condividere giocano un ruolo da protagonista: un obiettivo più facilmente raggiungibile, se si introduce un metodo unico di comunicazione.
In questo scenario, dunque, il modo con cui le aziende e i loro dirigenti guardano alla gestione delle risorse umane è diventato centrale e investire nella qualità della comunicazione fra manager, team e dipartimenti aziendali è fondamentale per rimanere allineati e trasmettere un sentimento di inclusione, a beneficio di una più forte motivazione, una più elevata qualità del lavoro, una maggiore produttività, una migliore focalizzazione sugli obiettivi e, quindi, di una più solida fidelizzazione dei dipendenti verso l’azienda.
E’ chiaro, altresì, che si tratta di un percorso che un’azienda non può certo improvvisare, ma dovrà opportunatamente avvalersi di competenze specifiche esterne messe a disposizione da enti consulenziali e di formazione, in grado di affiancare l’organizzazione per definire una metodologia adeguata e mettere in piedi un modello che possa garantire un maggiore livello di collaborazione nei e tra i reparti, una migliore gestione dello stress generato da dinamiche lavorative che si sviluppano in situazioni completamente diversi da come ci si era abituati in passato. Tutto ciò in un contesto strutturato in cui sia favorita la definizione, la raggiungibilità, il monitoraggio e la misurabilità di obiettivi condivisi.
di Maria Lanzetta